Reati tributari – Volume d’affari d’impresa ricostruibile con il sistema CLI.FO. senza provvedimento dell’Autorità

L’imputazione per il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili può essere legittimamente fondata sulla ricostruzione del volume d’affari dell’impresa mediante accesso al sistema informatico CLI. FO., il quale non è assimilabile ad una ispezione e non necessita, pertanto, di un decreto motivato dell’Autorità giudiziaria. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 54368 depositata il 5 dicembre 2018.

Un imprenditore individuale era imputato di alcuni reati tributari, tra cui quello di occultamento delle scritture contabili, previsto dall’art. 10 del D.Lgs. n. 74/2000.

In particolare, allo stesso era contestato di aver occultato ai militari della Guardia di Finanza le scritture contabili obbligatorie, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi e del volume di affari dell’azienda.

L’imputato veniva condannato sia in primo grado che in appello.

La difesa ricorreva in Cassazione, lamentando anzitutto l’inutilizzabilità del processo verbale di constatazione redatto dai militari per violazione del diritto di difesa. Infatti, nel caso in esame, i dati utili alla ricostruzione del volume d’affari dell’impresa erano stati acquisiti anche attraverso l’interrogazione al sistema informatico CLI. FO. (Clienti e Fornitori). Tale interrogazione avrebbe dovuto essere assimilata all’ispezione e necessitava, pertanto, del decreto motivato dell’Autorità Giudiziaria ex art. 244 c.p.p.

Decreto che, nella specie, non c’era stato.

Inoltre, l’imputato sosteneva che doveva ritenersi escluso il reato di occultamento poiché, il “privilegio contro l’autoincriminazione”, esercitato attraverso il rifiuto di esibire e consegnare le scritture obbligatorie, avrebbe reso legittimo il rifiuto da parte del contribuente ed escluso di conseguenza il reato, anche alla luce di quanto stabilito dalla CEDU nella sentenza n. 11663/04 del 5 aprile 2012.

LA NORMATIVA

Si ricorda brevemente che l’art. 10 del D.Lgs. n. 74 del 2000 punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.

Si tratta di un’ipotesi speciale di falso che tutela un interesse strumentale rispetto al corretto esercizio della funzione di accertamento fiscale.

La decisione della Corte di cassazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 54368 del 5 dicembre 2018 ha respinto il ricorso della difesa, confermando la condanna a carico dell’imputato.

I Supremi giudici hanno anzitutto precisato che l’interrogazione CLI. FO. non è assimilabile all’ispezione, poiché questa è un mezzo di ricerca della prova tipico, previsto dall’art. 244 c.p.p., ed ha ad oggetto persone, luoghi o cose quando occorre accertare le tracce e gli altri effetti materiali del reato.

Viceversa, l’accesso al sistema informatico Cli. Fo. è finalizzato ad acquisire un dato documentale nella disponibilità dell’Agenzia delle Entrate, ed è regolato dagli artt. 234 e seguenti del c.p.p.

Pertanto, nel caso di specie, l’acquisizione del dato era avvenuta del tutto legittimamente, non essendo necessario uno specifico decreto motivato.

Il principio di autoincriminazione

Quanto, invece, alla asserita violazione del principio di autoincriminazione, la Corte di Cassazione non concorda con tale impostazione, evidenziando che, nel caso in esame, la condotta contestata all’imputato non è consistita nella mancata esibizione delle scritture contabili nell’ambito del procedimento fiscale ma nel pregresso doloso occultamento delle scritture contabili e dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, al fine di evadere le imposte dei redditi o sul valore aggiunto ed impedire la ricostruzione del volume di affari; “una condotta dunque che con il diritto di difesa, esercitabile mediante il silenzio, non ha nulla a che vedere”.

Peraltro – prosegue la sentenza – l’obbligo di conservazione delle scritture contabili è stabilito nel codice civile ed assume una rilevanza pubblicistica che va ben oltre il profilo tributario e tutela interessi rilevanti che coinvolgono anche i terzi.

Da qui il rigetto del ricorso con conferma della condanna a carico dell’imprenditore.

Alcune osservazioni

Per quanto attiene al delitto di occultamento e distruzione delle scritture contabili, è sempre del 5 dicembre scorso un’altra sentenza (Cass. Pen. 54349/2018) con cui la Cassazione ricorda che tale illecito, tutelando il bene giuridico della trasparenza fiscale, è integrato in tutti i casi in cui la distruzione o l’occultamento della documentazione contabile dell’impresa non consenta o renda difficoltosa la ricostruzione delle operazioni, rimanendo escluso solo quando il risultato economico delle stesse possa essere accertato in base ad altra documentazione conservata dall’imprenditore e senza necessità di reperire “altrove” elementi di prova.