Il rigetto della richiesta di C.T.U. va motivato dal Giudice

La decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d’ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, che, tuttavia, è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell’istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l’istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare. A confermarlo è la Cassazione con sentenza 16 ottobre 2018, n. 25851.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI:
Conformi: Cass. 1 settembre 2015, n. 17399
Difformi: Non si rinvengono precedenti

La Corte di appello di L’Aquila aveva rigettato il reclamo proposto da D’A. P. avverso la decisione assunta dal Tribunale di Vasto relativa alla declaratoria di legittimità del licenziamento intimato dalla Fondazione P. A. M.O. La corte territoriale aveva ritenuto che alcun demansionamento si era verificato in danno del D’A. a seguito dello spostamento dello stesso presso altra sede lavorativa, come attestato dai testi escussi e dal raffronto delle mansioni in concreto assegnate con quelle di cui alla declaratoria della Cat. C) di appartenenza.

La Corte escludeva altresì il nesso causale tra la patologia diagnosticata (relativa a disturbi di ansia e disagio psichico) e le nuove mansioni, anche in ragione del brevissimo lasso temporale ( 7/10 giorni ) di effettivo svolgimento, e riteneva comunque proporzionata la sanzione espulsiva in ragione dei dubbi inerenti l’effettivo stato patologico del ricorrente, attestati da medico legato da rapporto di amicizia con il D’A. nonché dell’impegno lavorativo assunto , nel tempo della malattia , presso l’azienda agricola della madre.

Avverso detta decisione il ricorrente proponeva ricorso affidato a tre motivi di censura.

In particolare, con il terzo motivo il ricorrente lamenta l’omessa pronuncia in ordine alla chiesta C.T.U. medico-legale ed alla prova testimoniale.

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha ripetutamente affermato che la decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d’ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, che, tuttavia, è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell’istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l’istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare.

Pertanto, nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedono si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento di una consulenza medico-legale, specie a fronte di una domanda di parte in tal senso (nella specie, documentata attraverso l’allegazione di un certificato medico indicativo del nesso di causalità tra la sindrome depressiva lamentata e la condotta illecita del convenuto), costituisce una grave carenza nell’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza.

Rispetto a tali principi ed al necessario legame che deve prioritariamente sussistere tra accertamento tecnico e decisività dei risultati raggiunti risulta, quindi, ininfluente e non decisivo, rispetto alla controversia, il richiesto accertamento medico-legale diretto a valutare le condizioni psico-patologiche in cui versava il ricorrente e la loro compatibilità con la presenza dello stesso sui terreni della madre.

Ogni determinazione in tale senso, se pur positivamente conclusa, non avrebbe minimamente inciso sul presupposto inerente il nesso causale tra la denunciata patologia e la ragione lavorativa.

Tale prioritario elemento, escluso dalla corte territoriale con motivazione adeguata e coerente, rendeva carente del requisito di decisività ogni ulteriore accertamento sulle condizioni psico-fisiche del ricorrente e sulla compatibilità della presenza dello stesso in luoghi ed attività (terreni della madre) con lo stato di malattia in atto.

Esito del ricorso:

Rigetto

Riferimenti normativi:

Art. 2697 c.c.

Art. 61 c.p.c.

Art. 112 c.p.c.

Art. 245 c.p.c.

Cassazione civile, sez. lav., sentenza 16 ottobre 2018, n. 25851