Condanna per bancarotta fraudolenta: incostituzionale l’automatismo delle pene accessorie

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 222/2018, cancella la rigidità applicativa delle pene accessorie comminata per il delitto di bancarotta fraudolenta, estendendo all’art. 216 l.fall. la previsione “mobile” (“fino a”) di cui di cui agli artt. 217 e 218 l. fall.

Il caso

La Corte di cassazione, prima sezione penale, sollevava, in riferimento agli artt. 344127 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 CEDU e 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, l. fall. nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie della inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e della incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

Le questioni erano state sollevate nell’ambito del giudizio di cassazione avente ad oggetto la sentenza con la quale la Corte d’appello di Bologna, in sede di rinvio dopo un precedente annullamento da parte della quinta sezione penale della Corte di cassazione, aveva confermato la condanna di numerosi imputati per una pluralità di delitti di bancarotta impropria fraudolenta e semplice, variamente connessi alla vicenda del tracollo del gruppo Parmalat, reiterando, ai fini che qui rilevano, la condanna di tutti gli imputati alle menzionate pene accessorie per la durata legale di dieci anni già disposta nei precedenti gradi di giudizio.

Secondo il giudice remittente, il carattere fisso della durata decennale delle pene accessorie impedirebbe al giudice una loro determinazione in misura adeguata alle peculiarità del caso concreto.

La decisione della Corte

La Corte ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 216, ultimo comma, l. fall. con riferimento agli artt. 3 e 27, commi 1 e 3, Cost.

La Corte, in primo luogo, ha rilevato come la durata fissa delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, l. fall.“non appare, in linea di principio, compatibile con (…) i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio”.

Nel richiamare la propria giurisprudenza sul punto (e, in particolare, la sentenza n. 50 del 1980), la Corte ha rilevato come “in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il ‘volto costituzionale’ del sistema penale; ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente ‘proporzionata’ rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato”.

Orbene, la rigidità applicativa prevista dalla norma censurata si pone in contrasto con principio dell’individualizzazione del trattamento sanzionatorio, proprio perché la durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in questione – che hanno un contenuto fortemente limitativo su un ampio spettro di diritti fondamentali del condannato – non può ritenersi “ragionevolmente ‘proporzionata’ rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato”. La durata delle pene accessorie temporanee comminate dall’art. 216, ultimo comma, l. fall., infatti, resta “indefettibilmente determinata in dieci anni, quale che sia la qualificazione astratta del reato ascritto all’imputato (ai sensi del primo, del secondo o del terzo comma dello stesso art. 216), e quale che sia la gravità concreta delle condotte costitutive di tale reato; e resta, altresì, insensibile all’eventuale sussistenza delle circostanze aggravanti o attenuanti previste dall’art. 219della medesima legge, le quali pure determinano variazioni significative della pena edittale, potendo determinare un abbassamento del minimo sino a due anni (ulteriormente riducibili in caso di scelta di riti alternativi da parte dell’imputato), ovvero un innalzamento del massimo sino a quindici anni di reclusione”.

Individuato il vulnus ai principi costituzionali, la Corte si è interrogata su come porvi rimedio, alla luce dell’art. 25, comma 2, Cost., che riserva al solo legislatore le scelte in materia di trattamento sanzionatorio dei fatti costituenti reato, e considerando l’assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, come già ritenuto nella sentenza n. 134 del 2012, in cui la medesima questione era stata dichiarata inammissibile proprio per questo motivo.

Rimeditando i termini della questione, la Corte ha evidenziato da un lato, che “il legislatore non ha provveduto a quella riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma, auspicata da questa Corte nella sentenza n. 134 del 2012; e che, dall’altro, non può non considerare l’evoluzione in atto nella stessa giurisprudenza costituzionale in materia di sindacato sulla misura delle pene”. In particolare, la Corte ha riaffermato il principio secondo cui, “laddove il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore per una determinata figura di reato si riveli manifestamente irragionevole a causa della sua evidente sproporzione rispetto alla gravità del fatto, un intervento correttivo del giudice delle leggi è possibile a condizione che il trattamento sanzionatorio medesimo possa essere sostituito sulla base di ‘precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo’, intesi quali soluzioni sanzionatorie già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata” (sentenza n. 236 del 2016).

L’unica condizione che consente l’intervento additivo della Corte per rimediare a un riscontrato vulnus ai principi di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio è che “il sistema nel suo complesso offra precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti – esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non costituzionalmente obbligate – che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima”, ferma restando la possibilità per il legislatore di intervenire in qualsiasi momento a individuare altra soluzione sanzionatoria, purché rispettosa dei principi costituzionali.

Ciò chiarito, la Corte ha escluso che, come suggerito dal remittente, potesse farsi applicazione della regola residuale di cui all’art. 37 c.p., per l’assorbente ragione che “tale soluzione finirebbe per sostituire l’originario automatismo legale con un diverso automatismo, che rischierebbe altresì di risultare distonico rispetto al legittimo intento del legislatore storico di colpire in modo severo gli autori dei delitti di bancarotta fraudolenta, considerati a buon diritto come gravemente lesivi di interessi, individuali e collettivi, vitali per il buon funzionamento del sistema economico”.

La Corte ha perciò individuato una diversa soluzione, offerta dal vigente sistema della legge fallimentare: “le due disposizioni che immediatamente seguono l’art. 216 della legge fallimentare – l’art. 217, rubricato ‘Bancarotta semplice’, e l’art. 218, rubricato ‘Ricorso abusivo al credito’ – prevedono le medesime pene accessorie indicate nell’ultimo comma dell’art. 216; ma dispongono che la loro durata sia stabilita discrezionalmente dal giudice ‘fino a’ un massimo determinato dalla legge (due anni nel caso della bancarotta semplice, tre anni nel caso del ricorso abusivo al credito)”.

Orbene, “la medesima logica, già presente e operante nel sistema, può agevolmente essere trasposta all’interno dell’art. 216 della legge fallimentare, attraverso la sostituzione dell’attuale previsione della durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in esame con la previsione, modellata su quella già prevista per gli artt. 217 e 218 della medesima legge, della loro durata ‘fino a dieci anni’”.

Di conseguenza, la disposizione censurata è stata dichiarata illegittima nella parte in cui dispone: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”, anziché: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni”.

Una soluzione del genere consente quindi “al giudice di determinare, con valutazione caso per caso e disgiunta da quella che presiede alla commisurazione della pena detentiva, la durata delle pene accessorie previste dalla disposizione censurata, sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 cod. pen.”.

La Corte ha conseguentemente rilevato che l’accoglimento nei termini predetti della questione relativa all’art. 216, ultimo comma, l. fall. rende inammissibile, per sopravvenuta carenza di oggetto, la seconda questione relativa all’art. 223, ultimo comma, della medesima legge, dal momento che il contenuto di quest’ultima disposizione – che strutturalmente opera un rinvio mobile alla disposizione incisa dalla presente pronuncia – è destinato a essere automaticamente modificato in conseguenza della presente pronuncia di illegittimità costituzionale.

Infine, un’ultima notazione. La sentenza delle Corte avrà un impatto non solo sui processi in corso, ma anche su quelli definiti con sentenza passata in giudicato. Difatti, anche nel caso in esame può trovare applicazione il principio affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione secondo cui l’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem dal parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione (Cass. Pen., Sez. Unite, n. 6240 del 27/11/2014 – dep. 12/02/2015, B, Rv. 262327). Il condannato, pertanto, potrà adire il giudice dell’esecuzione per chiedere la rimodulazione delle pene accessorie, secondo i criteri indicati nella pronuncia della Corte costituzionale.

Esito del ricorso:

dichiarazione di incostituzionalità parziale; dichiarazione di inammissibilità.

Riferimenti normativi:

art. 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, r.d. 16 marzo 1942, n. 267