Lavoro domestico – Colf in nero: la Cassazione chiarisce qual è il momento consumativo dell’illecito

Nel caso di irregolare occupazione di una lavoratrice domestica per il periodo settembre 2004-settembre 2006, qualora il tribunale qualifichi come permanente l’illecito amministrativo contestato e ne faccia discendere l’accertamento del tempo della commissione dello stesso solo alla data di cessazione della condotta, anziché dallo scadere del termine previsto per denunciare l’avvenuta costituzione del rapporto di lavoro domestico, si palesa una illegittima applicazione dei principi espressi dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981 (Cass. civ. 24 ottobre 2018 n. 27002).

 

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Cass. civ. sez. SS.UU., 12/12/1967 n. 2926

Cass. civ. n. 7485/2018

Difformi Non si rinvengono precedenti

Il rapporto di lavoro domestico è regolato dagli artt. 2240 c.c. e ss., nonché dalla legge n. 339 del 2 aprile 1958 “per la tutela del lavoro domestico”.

Si definisce lavoratore domestico un soggetto che presta servizi di carattere domestico in maniera continuativa e prevalente per almeno quattro ore giornaliere presso lo stesso datore di lavoro, con retribuzione in natura o in denaro.

Tale definizione è stata rimodulata dalla giurisprudenza, che, con una interpretazione maggiormente estensiva, ha riconosciuto l’esistenza del rapporto di lavoro domestico nell’obbligazione e disponibilità del lavoratore di compiere l’attività con modalità varie e relative alle esigenze della famiglia, senza che assuma alcuna rilevanza la durata della prestazione (Cass. Civ. 20/09/1979 n. 4855).

Recentemente (Cassazione, ordinanza n. 21446/2018) la Suprema Corte ha evidenziato come il rapporto di lavoro domestico sia caratterizzato dalla prestazione finalizzata al funzionamento della vita familiare per soddisfare un bisogno personale del datore e che non costituisce strumento per l’esercizio della sua attività professionale.

Nell’ambito di questa tipologia di rapporto lavorativo, la qualità di datore di lavoro può essere rivestita da una persona singola, da un nucleo o gruppo familiare, da comunità stabili sia religiose che militari.

A differenza che per gli altri lavoratori subordinati, l’assunzione del lavoratore domestico avviene attraverso modalità semplificate, presentando la comunicazione direttamente all’INPS tramite web, contact center o intermediari dell’istituto; medesime modalità di comunicazione sono prescritte anche per le ipotesi di cessazione, trasformazione o proroga del rapporto di lavoro domestico.

Le suddette comunicazioni devono rispettare degli specifici termini di presentazione; nello specifico, la comunicazione di assunzione del lavoratore domestico deve avvenire entro le ore 24 del giorno antecedente l’inizio del rapporto di lavoro, ai sensi dell’art. 9 bis co. 2 D.L. n. 510/96, mentre la comunicazione di trasformazione, proroga e cessazione del rapporto di lavoro deve essere effettuata entro cinque giorni dall’evento, a norma dell’art. 4 bis del d.lgs. n. 181/2000.

Il rapporto di lavoro domestico, purtroppo, nonostante le tutele esistenti, rappresenta uno dei più comuni fenomeni di lavoro sommerso, cui spesso consegue, al momento dell’accertamento dell’illecito, la relativa comminazione della sanzione in capo al datore di lavoro.

L’accertamento delle irregolarità lavorative è demandato all’attività ispettiva ministeriale, che viene esercitata tramite il lavoro dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), agenzia unica per le ispezioni del lavoro istituita dal 24 settembre 2015 con la finalità di razionalizzare e semplificare l’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale, evitando la sovrapposizione degli interventi ispettivi.

L’ispettorato è sottoposto alla vigilanza del Ministro del Lavoro nonché al controllo della Corte dei Conti, e svolge le attività ispettive che un tempo erano demandate al Ministero del Lavoro, all’INPS e all’INAIL.

L’INL si articola in un ufficio centrale sedente in Roma, quattro uffici interregionali (ispettorati interregionali del lavoro) e settantaquattro uffici territoriali denominati ispettorati territoriali del lavoro. Questi ultimi esercitano le competenze delle vecchie Direzioni Territoriali del Lavoro (DTL), svolgendo funzioni di coordinamento e razionalizzazione dell’attività di vigilanza, nonché vigilanza e regolazione in materia di lavoro, legislazione sociale e strumenti di sostegno al reddito, normativa lavoristica e previdenziale, normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, osservanza delle disposizioni rientranti nei compiti e nelle attribuzioni dell’INL, mediazione delle controversie di lavoro, certificazione dei contratti di lavoro, gestione dei flussi migratori per ragioni di lavoro.

Al fine di esercitare le attività di indagine e vigilanza, l’ispettorato territoriale del lavoro svolge la cosiddetta indagine ispettiva, mediante accesso in azienda, o comunque sul luogo di lavoro.

Senza scendere nei dettagli dell’attività ispettiva, che meriterebbe una dissertazione a parte, va evidenziato che nell’ipotesi in cui gli ispettori ravvisino l’accertamento ispettivo fondato e conseguentemente rilevino la commissione di un illecito, la Direzione dell’ispettorato del lavoro emette ordinanza ingiunzione, con la quale viene indicata la somma dovuta per la violazione ed ingiunto il pagamento, con le spese, all’autore della violazione e alle persone obbligate in solido, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 689/81.

L’ordinanza ingiunzione è un atto amministrativo dotato di esecutorietà, soggetto all’obbligo di motivazione, anche semplicemente mediante una sintetica esposizione delle ragioni sottese all’emanazione dell’atto che consenta il controllo della valutazione della responsabilità e della gravità della condotta illecita.

Tale atto è impugnabile in sede giudiziale secondo le norme del rito del lavoro.

L’articolo 3 comma 3 della legge 23 aprile 2002 n. 73, recante disposizioni urgenti per il completamento delle operazioni di emersione – tra l’altro – del lavoro irregolare, sino al 12 agosto 2006 puniva l’impiego di lavoratori dipendenti non risultanti dalle scritture contabili o da altra documentazione, con l’ulteriore sanzione amministrativa dal 200 al 400 per cento dell’importo, per ciascun lavoratore irregolare, del costo del lavoro calcolato sulla base dei vigenti contratti collettivi nazionali, per il periodo compreso tra l’inizio dell’anno e la data di constatazione della violazione.

Successivamente, il decreto Bersani (D.L. 4 luglio 2006 n. 223), convertito in legge 4 agosto 2006 n. 248 ed entrato in vigore il 12 agosto 2006 a seguito della pubblicazione sulla gazzetta ufficiale (cfr. art. 1 comma 2 della legge di conversione n. 248/2006) ha modificato la disciplina relativa alle sanzioni derivanti dall’emersione di lavoro sommerso.

In particolare, l’art. 36 bis comma 7 lettera a) del decreto Bersani ha modificato la norma di cui all’articolo 3 comma 3 della legge n. 73/2002, introducendo delle sanzioni amministrative specificamente determinate: il soggetto che impiega lavoratori “sommersi”, a differenza della disciplina previgente, è punito con una sanzione amministrativa da euro 1.500 a euro 12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di euro 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo; l’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore di cui al periodo precedente non può essere inferiore a 3.000 euro, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata.

È molto importante aver chiara l’esatta successione temporale delle norme sopra citate, al fine di agevolmente comprendere la vicenda esaminata dalla Suprema Corte.

Il caso affrontato dagli Ermellini, infatti, ha ad oggetto l’emersione dell’irregolare occupazione di una lavoratrice domestica nel periodo compreso tra il 15 settembre 2004 e il 15 settembre 2006; a seguito di tale condotta, è stata emessa ordinanza ingiunzione sulla base delle più gravi sanzioni previste dal decreto Bersani, che, si ribadisce, è entrato in vigore solo in data 12 agosto 2006, cioè in costanza di rapporto di lavoro “sommerso”.

Il fulcro della questione, che ha portato la Cassazione a cassare con rinvio la sentenza d’appello, è relativo al momento consumativo dell’illecito, elemento necessario al fine di individuare la specifica disciplina sanzionatoria applicabile.

Nessuno, infatti, può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione.

Tale affermazione è espressione del principio di legalità, che nel caso in questione trova fonte normativa nell’art. 1 della legge n. 689/1981 (depenalizzazione) oltre che, ovviamente, nell’art. 23 della costituzione.

La Corte, al fine di definire la questione, si è interrogata sulla legge vigente al momento della violazione commessa dal ricorrente, ritenendo applicabile, per un rapporto di lavoro “sommerso” intrapreso il 15 settembre 2004 e conclusosi il 15 settembre 2006, ratione temporis, la vecchia normativa antecedente al decreto Bersani, cioè quella con la sanzione dal 200 al 400 per cento dell’importo del costo del lavoro.

La Corte ha ritenuto applicabile la vecchia normativa sulla base della qualificazione da attribuire all’illecito amministrativo contestato, vale a dire il mancato rispetto degli obblighi di comunicazione e denuncia del rapporto lavorativo: si tratta di un illecito di tipo omissivo, non avente carattere permanente: pertanto, la legge applicabile va individuata in base alla data di scadenza del termine previsto per la denuncia dell’avvenuta costituzione del rapporto di lavoro domestico, che nel caso di specie è individuabile nelle ore 24 del 14 settembre 2004.

Già in passato la Corte Costituzionale (sentenza n. 140/2002) ha precisato che per quanto riguarda la disciplina generale e di principio delle sanzioni amministrative pecuniarie, non è dato rinvenire, in caso di successione di leggi nel tempo, un vincolo imposto al Legislatore nel senso dell’applicazione della legge posteriore più favorevole, rientrando nella discrezionalità del Legislatore – nel rispetto del limite della ragionevolezza – modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore a seconda delle materie oggetto di disciplina; sotto tale profilo, non può ritenersi irragionevole che, in riferimento a particolari tipologie di illeciti amministrativi, interessate da ampi interventi di riforma e caratterizzate da peculiarità sostanziali che ne giustificano uno specifico trattamento sanzionatorio (esempio materia tributaria) il Legislatore abbia optato per l’introduzione di una disciplina di maggior favore per l’autore della trasgressione, senza che, trasformando l’eccezione in regola, dette scelte debbano essere generalizzate e poste come disposizioni di principio.

Del resto, è pacifico in giurisprudenza (Cass. SS.UU. n. 2926 del 12/12/1967, sempre recepita dalla Suprema Corte) il principio per cui l’irretroattività della legge comporta che quella nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita, se in tal modo si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future di esso.

In conclusione, in materia di illecito amministrativo non può dirsi applicabile il principio del favor rei (così anche Cass. n. 7485/2018).

Cassazione civile, sezione Lavoro, ordinanza 24 ottobre 2018 n. 27002

Articolo 1 della legge n. 689 del 1981