Factoring: in capo al factor l’obbligo (e non la mera facoltà) di acquistare il credito

Con la sentenza n. 30183 del 22 novembre 2018, la Cassazione ha affrontato, oltre ad alcune questioni di natura processuale, il tema legato alla qualificazione di un rapporto come factoring ed in particolare riguardo alla necessaria sussistenza, ai fini della qualificazione giuridica in tal senso, di alcuni elementi essenziali e caratteristici del factoring. Con la decisione in esame, la Suprema Corte ha cassato la pronuncia della Corte d’Appello di Milano laddove questa aveva qualificato il rapporto tra le parti come un contratto di factoring nonostante la previsione della mera facoltà per il factor di acquistare i crediti al momento della loro scadenza e di accordare al debitore ceduto la possibilità di un pagamento dilazionato in cambio di una commissione. La Cassazione ha affermato che, qualificare come factoring un rapporto e prevedere contemporaneamente solo una mera facoltà in capo al factor di acquistare i crediti, facendola dipendere dalla data del pagamento dilazionato concesso al debitore ceduto, in cambio della relativa commissione, costituiscono affermazioni evidentemente inconciliabili nonché contraddittorie dal punto di vista giuridico. Pertanto, con tale pronuncia la Suprema Corte, in relazione ad uno dei motivi sollevati, ha dichiarato incomprensibile la ratio decidendi della sentenza di Appello.

La vicenda in esame riguarda l’opposizione, presentata innanzi al Tribunale di Milano dalla società S. avverso il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, emesso in favore della società che agiva in veste di factor, in relazione ad un credito da quest’ultima acquistato e rimasto inadempiuto da parte della debitrice ceduta.

La Corte d’Appello territoriale con sentenza del 5 luglio 2016 aveva confermato la decisione del Tribunale di rigettare l’opposizione, dichiarando infondate le pretese attoree ed affermando in particolare, in relazione al contratto di factoring, che fosse imputabile alla stessa attrice opponente (nei fatti, creditrice cedente) l’inadempimento del contratto per violazione del dovere di fornire la documentazione provante il credito al factor (così come disciplinata dalle condizioni generali vigenti tra le parti). Secondo la Corte territoriale, tale violazione aveva determinato la decadenza della società attrice S. dalla garanzia pro soluto dei crediti ceduti, con conseguente riassunzione in capo alla medesima, del rischio d’insolvenza.

La Corte milanese aveva respinto la tesi dell’appellante secondo la quale tale rapporto non sarebbe stato qualificabile come factoring, alla luce delle disposizioni in forza delle quali al factor veniva riconosciuta la facoltà di corrispondere il prezzo dei crediti solo al momento della loro scadenza e al debitore ceduto veniva concessa una dilazione del pagamento a fronte del pagamento di una commissione. In sede di Appello, infatti la Corte sosteneva come le particolari modalità di esecuzione del contratto di factoring non facessero comunque venir meno la funzione propria del contratto, in quanto, pur ricevendo il pagamento del corrispettivo alla scadenza delle fatture anziché in anticipo, l’impresa cedente aveva comunque il vantaggio di poter pianificare i flussi finanziari.

La società S. (già attrice in opposizione e ricorrente in appello) proponeva ricorso per cassazione sulla base di dieci motivi.

La Corte di cassazione, con decisione del 22 novembre 2018, ha dichiarato infondate molte delle deduzioni della ricorrente mentre, ha accolto il sesto motivo, sul quale merita soffermarsi.

Con il sesto motivo la ricorrente in Cassazione denunciava la nullità della sentenza d’appello per “motivazione apparente”, poiché tale sentenza, pur affermando che la società di factoring non aveva obblighi nei confronti del creditore cedente di pagare la fattura, bensì solo la facoltà di accreditare il prezzo dei crediti alla loro scadenza e di accordare una dilazione di pagamento al debitore ceduto, a fronte del pagamento di una commissione, in modo del tutto incoerente sosteneva altresì che la creditrice cedente avesse comunque il vantaggio di poter pianificare i flussi finanziari e, proprio in virtù di ciò, aveva qualificato il rapporto in termini di factoring.

Ebbene, la Suprema Corte, nell’accogliere il sesto motivo, ribadiva che, nonostante il contratto di factoring abbia una struttura complessa ed atipica, vi sono alcuni elementi di carattere essenziale che devono sussistere affinché un rapporto possa essere qualificato come tale. In particolare, oggetto del contratto è l’accordo in forza del quale un soggetto, spesso un’impresa specializzata, chiamato factor, si obbliga ad acquistare (pro soluto o pro solvendo), per un determinato periodo di tempo, anche rinnovabile, tutti o parte dei crediti di cui un soggetto è o diventerà titolare. Rilevava come invece la Corte territoriale avesse qualificato quale contratto di factoring il rapporto in oggetto nel quale, tuttavia, si escludeva un obbligo per il factor di acquistare il credito, facendone dipendere l’effettivo acquisto dalla dilazione concessa al debitore ceduto (cui peraltro veniva richiesto il pagamento di una commissione).

La Suprema Corte ha dunque affermato come, in sede di appello, sia stata resa una decisione che, almeno per quanto riguarda il sesto motivo di impugnazione, risulta essere contraddittoria in quanto, da un lato, riconosce l’esistenza di un contratto di factoring, implicante l’esistenza di un obbligo in capo al factor, che consente al cedente di poter pianificare i flussi finanziari, ma allo stesso tempo esclude l’esistenza di tale obbligo, affermando al contrario che il pagamento dei crediti costituirebbe una mera facoltà, per di più dipendente dalla concessione di un pagamento dilazionato al debitore ceduto.

Alla luce di quanto esposto, la Cassazione ha ravvisato la violazione degli artt. 111, comma 6, Cost. e art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., che da luogo alla nullità della sentenza e per questi motivi ha cassato la sentenza in relazione al motivo accolto, rinviando alla Corte d’Appello di Milano, cui ha demandato di provvedere.

Sarà interessante vedere come deciderà la Corte milanese.

Cassazione civile, sez. III, sentenza 22 novembre 2018, n. 30183