Un’unica operazione antieconomica non giustifica l’accertamento analitico-induttivo

Con l’ordinanza n. 25217 dell’11 ottobre 2018, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo l’utilizzo del metodo di accertamento analitico-induttivo basato su una sola circostanza che rivesta i caratteri di presunzione semplice, ovvero l’anti-economicità di un’operazione isolata dalla valutazione del complessivo contesto imprenditoriale. In particolare, vanno considerati da parte dell’Amministrazione Finanziaria tutti gli elementi fattuali che possono giustificare l’operazione contestata, tra i quali la chiusura in attivo dell’esercizio che esclude la presunzione di anti-economicità del costo sostenuto.

Orientamenti giurisprudenziali
Conformi: Cass. Civ. n. 20060 del 24/09/2014;

Cass. Civ. ordinanza n. 26036 del 30/12/2015;

Cass. Civ.n. 24474 del 17/11/2006;

Cass. Civ. n. 16253 del 23/07/2007;

Cass. Civ. n. 24055 del 13/11/2009;

Cass. Civ. n. 3497/2011;

Cass. Civ. n. 9096/2012;

Cass. Civ. n. 27296/2014;

Cass. Civ. n. 11311/2016;

Difformi: Non si rinvengono precedenti

Con riferimento alla sentenza di secondo grado, gli Ermellini hanno ritenuto non corretto aver considerato fondata l’applicazione del metodo analitico-induttivo sulla base di una circostanza, dalla stessa Commissione Tributaria Regionale ritenuta presunzione semplice, ovvero l’anti-economicità di una sola operazione. Inoltre la Sezione Tributaria rileva come i giudici di secondo grado non abbiano tenuto conto, nella loro valutazione, di tutta una serie di elementi fattuali dai quali si evinceva la complessiva situazione finanziaria positiva del contribuente e l’esistenza di un utile di esercizio, malgrado l’asserita “anti-economicità” dell’operazione. L’ordinanza in commento pone la questione della illegittimità del metodo di accertamento analitico-induttivo basato su una sola circostanza che rivesta i caratteri di presunzione semplice, con riferimento all’anti-economicità di una operazione isolata dalla valutazione del complessivo contesto imprenditoriale. Ai sensi dell’art. 75 D.P.R. n. 917/1986, applicabile ratione temporis: “1. I ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi.., concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni. 2. Ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza: ….b) i corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti, e le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute, alla data in cui le prestazioni sono ultimate …»; dette disposizioni normative sono state costantemente interpretate dalla Suprema Corte di Cassazione nel senso che in tema di reddito d’impresa, le regole sull’imputazione temporale dei componenti di reddito – inderogabili, sia per il contribuente che per l’ufficio finanziario – seguono il principio di “competenza economica”, stabilito in generale dall’art. 75 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, il quale implica che gli elementi reddituali (attivi e passivi) derivanti da una determinata operazione siano iscritti in bilancio, non già con riferimento alla data del pagamento o dell’incasso materiale del corrispettivo, ma nel momento in cui esso perviene a completa maturazione, appunto con l’ultimazione della prestazione. Il costo, perciò, inerisce temporalmente all’esercizio in corso al momento dell’ultimazione della prestazione, indipendentemente dalla data della fatturazione e dell’effettivo pagamento del corrispettivo imputato nel conto economico” (Cass. Civ. n. 24474 del 17/11/2006;n. 16253 del 23/07/2007;n. 24055 del 13/11/2009; Cass. Civ. n. 3497/2011; Cass. Civ. n. 9096/2012; Cass. Civ. n.27296/2014; Cass. Civ. n. 11311/2016). Alla luce di suddetti principi, appare evidente l’errore in diritto in cui è incorsa la Commissione Tributaria Regionale del Lazio laddove, con motivazione insufficiente (non tenendo in debito conto gli ulteriori elementi fattuali prospettati dal contribuente) non ha riconosciuto la deducibilità di parte del corrispettivo del contratto di prestazioni di servizi, ritenuto inidoneo a fornire prova del costo, perché non provati i pagamenti, attraverso fatture o altri documenti contabili. L’accertamento con metodo analitico-induttivo, con quale cui il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorché di rilevante importo, è consentito, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d) del d.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata.
In materia di I.V.A., si è statuito che l’Amministrazione Finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’anti-economicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 54, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni. Nella specie, la Commissione Tributaria Regionale, non solo ha erroneamente ritenuto fondato il ricorso all’accertamento analitico-induttivo sulla base di una circostanza, dalla stessa ritenuta presunzione semplice, ovvero l’anti-economicità di una sola operazione posta in essere dalla Società contribuente isolandola dal contesto complessivo risultante dalla contabilità sociale (non disconosciuta), ma non ha, altresì, tenuto conto, nella sua valutazione, di tutta una serie di elementi fattuali dai quali si evinceva la complessiva situazione finanziaria positiva della Società contribuente.
La questione giuridica
L’accertamento analitico-induttivo consente all’Amministrazione Finanziaria di muovere dai dati analitici indicati nella contabilità del contribuente per giungere, attraverso l’utilizzo di presunzioni gravi, precise e concordanti, alla determinazione di attività non dichiarate o al disconoscimento di passività dichiarate. In quanto metodologia accertativa che consente all’Amministrazione Finanziaria di avvalersi di presunzioni, disattendendo in parte le risultanze delle scritture contabili, il ricorso a tale strumento è ammesso quando l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione risulti dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’articolo 33 del D.P.R. 600/1973 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’articolo 32 del D.P.R. 600/1973. La doppia natura dell’accertamento in esame è giustificata dalla necessità per l’Amministrazione finanziaria di colmare, appunto attraverso un ragionamento di tipo induttivo, le lacune o le inesattezze individuate nell’ambito di un impianto contabile giudicato, nel complesso, attendibile. L’esercizio dell’azione di rettifica non deve essere subordinato alla mera discrezionalità degli accertatori, ma deve essere preceduto da un processo critico, idoneo ad evidenziare l’eventuale difformità dei dati esposti nella dichiarazione con quelli effettivi e con gli elementi legittimamente acquisiti dall’Amministrazione Finanziaria. È di fondamentale importanza distinguere l’accertamento analitico-induttivo dalla diversa tipologia prevista dal secondo comma dell’articolo 39, ovvero quella dell’accertamento induttivo puro. Il discrimine tra le due diverse metodologie accertative deve essere ricercato nella parziale o totale inattendibilità delle scritture contabili. Nel primo caso, se l’incompletezza, falsità o inesattezza degli elementi indicati non è tale da compromettere l’attendibilità dell’intero impianto contabile, l’Amministrazione Finanziaria può soltanto completare le lacune riscontrate; nel secondo caso invece, considerato che le omissioni o le false o inesatte indicazioni risultano tali da inficiare l’attendibilità di tutti i dati contabili, l’ufficio può prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti, procedendo a determinare l’imponibile in base a presunzioni anche non gravi, precise e concordanti. È opportuno evidenziare, inoltre, come il ricorso all’accertamento analitico-induttivo sia stato ritenuto ammissibile anche in presenza di scritture contabili che, pur formalmente corrette, siano risultate confliggenti con le normali regole di ragionevolezza: è il caso, ad esempio, del contribuente che sostenga, per più anni, un ammontare di costi più elevato rispetto ai ricavi, chiudendo ripetutamente in perdita la propria attività. Recentemente, è stato ritenuto esperibile l’accertamento analitico-induttivo anche a fronte di movimentazioni anomale del conto cassa: secondo la Suprema Corte di Cassazione, infatti, la presenza di un conto cassa con ingente saldo positivo in combinazione con una elevata esposizione bancaria costituirebbe una incongruenza sufficiente a giustificare il ricorso allo strumento di cui all’articolo 39, primo comma, lettera d), D.P.R. 600/1973 (Cass. Civ. n., 20 gennaio 2017 n.1530).
L’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti. Non vi è necessità per l’ufficio di fornire prove certe. È il giudice tributario di merito tenuto a valutare gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione Finanziaria dandone atto e motivazione. Solo quando il giudice ritenga siano presenti elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, procede a valutare la prova contraria offerta dal contribuente su cui, a questo punto, incombe l’onere probatorio. Nonostante scritture contabili formalmente corrette l’inattendibilità e la irragionevolezza e il contrasto al comune buon senso delle stesse consentono all’Amministrazione finanziaria di dubitare delle operazioni contabili sulla base di presunzioni semplici, ma gravi, precise e concordanti. In tal caso l’onere della prova si sposta sul contribuente. La relazione tra il fatto noto e quello ignoto può esistere anche quando il fatto da dimostrare sia conseguenza in base a canoni di ragionevole probabilità. Es.: È legittimo secondo la Suprema Corte l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sula base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati (è normale che per ogni pasto ciascun cliente adoperi un solo tovagliolo) è peraltro ragionevole presumere che si debba procedere ad una sottrazione dal totale dei tovaglioli usati da camerieri, dipendenti ed altro. Altro es.: È legittimo l’accertamento che ricostruisce i ricavi di un albergo sulla base delle fatture relative al lavaggio degli asciugamani. Anche l’attività antieconomica è indizio di evasione se corroborata da elementi gravi, precisi e concordanti. In tal caso grava sull’imprenditore l’onere di dimostrare che la differenza negativa tra costi di acquisto e prezzi di rivendita non è attribuibile ad occultamento di corrispettivi, ma a cause economiche idonee a giustificarla. La presenza di costi fittizi in bilancio della società è sufficiente a far
presumere l’esistenza di un pari maggior reddito imponibile senza alcuna necessità per l’ufficio di dimostrare che siano derivati maggiori utili distribuiti ai soci. Al contribuente incombe l’onere di fornire la prova contraria. In base ad un consolidato criterio ermeneutico, solo quando dall’analisi della contabilità emerge che il rispetto delle regole formali di imputazione di costi e ricavi nasconde una descrizione non veritiera della capacità reddituale del soggetto, l’Amministrazione Finanziaria può disattendere la contabilità e procedere all’accertamento c.d. analitico-induttivo di cui all’art. 39, comma secondo, DPR n. 600 del 1973. In termini probatori, in tale caso vi è il ricorso a presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., in quanto dal fatto noto – ad es., la quantità e tipologia di merce presente nei registri degli acquisti cui è applicata la percentuale di ricarico sulle vendite – si risale al fatto ignoto cioè i ricavi conseguiti nell’anno. Ciò premesso, la validità e la legittimità di tale strumento istruttorio dipendono dalla serietà e gravità degli indizi posti a base della rideterminazione induttiva del reddito, unitamente alla motivata inattendibilità dei dati derivanti dalla contabilità. Tali presupposti, secondo giurisprudenza consolidata, legittimano l’ufficio a procedere alla rideterminazione del reddito con le modalità di cui all’art. 39, comma secondo, DPR n. 600 del 1973, prescindendo dalla documentazione contabile presentata dal contribuente. Il ricorso a presunzioni gravi, precise e concordanti rende legittimo l’accertamento induttivo qualora dall’esame della contabilità, pur formalmente ineccepibile, questa sia complessivamente non attendibile.
Conclusioni
L’unico elemento dell’anti-economicità, in contrapposizione alla necessaria considerazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, non sarebbe di per sé ostativo, almeno se ci si ponesse in linea con un orientamento consolidato della Suprema Corte per il quale la “concordanza” può essere desunta anche da un solo elemento. In chiave generale si potrebbe affermare che l’ordinanza in commento pone la questione della illegittimità del metodo di accertamento analitico-induttivo basato su una sola circostanza che rivesta i caratteri di presunzione semplice, con riferimento all’anti-economicità di una operazione isolata dalla valutazione del complessivo contesto imprenditoriale. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che, in presenza dell’elemento della scelta anti-economica in un’unica operazione posta in essere dal contribuente isolatamente dal contesto complessivo che dava evidenza di una situazione economica e finanziaria positiva, non si potesse ricorrere all’accertamento analitico-induttivo sia ai fini delle imposte dirette che indirette. Il comportamento antieconomico deve essere, di conseguenza, valutato tenendo conto dell’economicità complessiva risultante dall’intera situazione contrattuale e aziendale. È necessario tenere presente che l’operato dell’imprenditore potrebbe essere ricondotto a complesse strategie imprenditoriali rispetto alle quali la singola operazione oggetto di analisi da parte dell’Amministrazione Finanziaria costituisce solo un tassello. A titolo di esempio, si potrebbero citare i casi in cui l’impresa rende servizi sottocosto come quando, nel caso di franchising, l’impresa produttrice dia in uso dei locali ai venditori a condizioni più favorevoli di quelle di mercato per incentivare la diffusione di prodotti caratterizzati da un determinato marchio, oppure i casi in cui l’impresa concede in comodato gratuito i macchinari con i quali il comodatario deve svolgere lavori a favore della medesima impresa comodante, o ancora, i casi di vendite sottocosto per motivi di penetrazione del mercato. Lo stesso orientamento è peraltro desumibile, sia pure implicitamente, dalla nota dell’Agenzia delle Entrate 55440/2008, nella quale è stato precisato che gli uffici devono rettificare i componenti reddituali considerati anomali rispetto alle “dimensioni” e alla tipologia dell’attività dell’impresa ed evidenziare i motivi per i quali la scelta operativa del contribuente è ritenuta antieconomica nonché la “corretta entità” del componente rettificato, in modo da ricondurlo ad un carattere di normalità. Devono essere, altresì, rispettate le valutazioni di strategia commerciale riservate all’imprenditore.
Esito del ricorso:
Accoglimento
Riferimenti normativi:
Art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973;
Art. 54, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 633 del 1972;
Art. 75 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
Cassazione civile, Sez. V, ordinanza 11 ottobre 2018, n. 25217