Processo tributario: ammissibili le dichiarazioni extraprocessuali rese da terzi

La sentenza n. 17627/2018 della Suprema Corte di cassazione affronta il delicato tema della prova nel processo tributario, risolvendo nel senso già indicato in altre occasioni dalla Corte stessa, l’ammissibilità e la valutazione delle dichiarazioni extraprocessuali rese da terzi.

Il tema della valenza probatoria delle dichiarazioni di terzi acquisite fuori del processo e contenute in documenti che una delle parti offre come fonte di prova al giudice, investe problemi di fondo del «giusto processo», ma anche i limiti all’assunzione di prove in violazione del principio del contraddittorio, i limiti al principio del libero convincimento del giudice, la violazione del principio di oralità nell’assunzione della prova, la prevalenza del formalismo dei documenti sulla sostanza dei fatti.
La Corte Suprema conferma il proprio orientamento, generalmente diretto ad attribuire pur sempre una certa efficacia probatoria alle dichiarazioni di terzo, sia pure sotto la forma di indizi o di argomenti di prova che possono contribuire al convincimento del giudice, senza quindi vincolarlo a ritenere provato o non provato un determinato fatto, come avviene ove per la prova testimoniale, che in quanto prova legale vincola invece il giudice.
La questione risulta particolarmente delicata, dal momento che consentire l’introduzione delle dichiarazioni di terzi nel processo da un lato pone problemi di parità processuale; nel presente caso, come spesso accade, è specialmente l’Erario a raccoglierle, in sede di risposta a questionari da parte di clienti o fornitori dell’impresa verificata.
Tal materiale probatorio potrebbe eludere sostanzialmente il divieto di cui all’art. 7 comma 4 d.Lgs. n. 546/1992, ma non solo: esso risulta nei fatti acquisito senza il rispetto di alcuno specifico requisito formale, posto a garanzia dell’attendibilità di quanto dichiarato, quale è invece nel caso di prova testimoniale la verbalizzazione delle domande e prima ancora la prestazione dell’impegno a dire il vero. Oltre a ciò, non si può trascurare che, secondo l’art. 116, secondo comma, c.p.c., gli argomenti di prova hanno origine processuale: il giudice desume infatti argomenti di prova anche «dalle risposte che le parti gli danno (a norma dell’art. 117 c.p.c.), dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo». Risulta quindi distonico ammettere che possano dedursi argomenti di prova da fatti accaduti fuori del processo, e senza che il giudice abbia esperienza diretta della loro formazione.
Nel caso portato qui all’esame della Corte, l’Agenzia delle entrate impugnava la sentenza del giudice di secondo grado censurandone la valutazione secondo la quale dovevano ritenersi inattendibili le prove acquisite con i questionari inviati ai clienti”, perché “questa documentazione risulta valida a fini interni dell’amministrazione, ma non può essere esibita come prova processuale perché la prova testimoniale non risulta ammissibile nel processo tributario”.
La Corte osserva come in realtà “nel processo tributario sono pienamente utilizzabili come indizi le dichiarazioni scritte provenienti da terzi”, accostando al termine relativo alla loro utilizzabilità, che le dichiara ammissibili nel processo, con significativa immediatezza, l’altro termine che ne precisa la natura indiziaria e le distingue dalla prova testimoniale che è prova e non indizio.
In altri termini, secondo la pronuncia in commento, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, (in concreto tali dichiarazioni sono state formate da una parte, vale a dire dal Fisco, che ha raccolto e riportato in documenti quanto dichiarato da terzi in senso sfavorevole all’altra parte) tali dichiarazioni rilevano quali elementi indiziari. La loro natura indiziaria consente loro di concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice (Cass. Civ., 7 aprile 2017, n. 9080); il rispetto del principio di parità tra le parti nel processo ha già invero portato la Corte a consentire analogo loro utilizzo e prima ancora produzione in atti da parte anche del contribuente (Cass. Civ., 16 marzo 2018, n. 6616).
Sul punto, il giudice di Legittimità ha anche chiarito ancora di recente (Cass. Civ. Sez. 6-5, Ord. n. 6616 del 16/03/2018) come nel giudizio tributario anche il contribuente, come l’Amministrazione finanziaria, ha la possibilità di introdurre dichiarazioni scritte rese da terzi, aventi valenza indiziaria in proprio favore; tal facoltà viene fatta derivare sia dall’attuazione nell’ordinamento processuale interno dei principi del giusto processo ex art. 6 CEDU, stante l’irrogazione, nell’ambito dello stesso, di sanzioni assimilabili a quelle penali, sia dalla necessità di dare concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione (Cass. Civ. Sez. 5, Sentenza n. 4269 del 25/03/2002; per il richiamo alla disposizione della Carta Fondamentale, si veda Corte Cost. n. 18/2000, secondo la quale “la possibilità che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente, in un processo nel quale quest’ultimo non può avvalersi, per contestarne l’efficacia probatoria, della prova testimoniale, non è d’altro canto in contrasto né con il principio di eguaglianza né con il diritto di difesa del contribuente medesimo. Il valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dall’amministrazione finanziaria nella fase dell’accertamento è, infatti, solamente quello proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione. Si tratta, dunque, di un’efficacia ben diversa da quella che deve riconoscersi alla prova testimoniale e tale rilievo è sufficiente ad escludere che l’ammissione di un mezzo di prova (le dichiarazioni di terzi) e l’esclusione dell’altro (la prova testimoniale) possa comportare la violazione del principio di “parità delle armi”).
Nel processo tributario, quindi, il divieto di prova testimoniale posto dall’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992 si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice.
Pertanto, la Commissione regionale ha errato nel ritenere che le risposte scritte dei clienti al questionario loro inviato dalla Agenzia delle entrate non fossero utilizzabili in sede processuale, per il divieto della prova testimoniale che caratterizza il processo tributario; detto divieto infatti trova applicazione appunto per la prova testimoniale, non per le dichiarazioni di terzi, che in ultima analisi altro sono (in questo senso Cass. Civ. Sez. 5, Sentenza n. 9080 del 07/04/2017; Cass. Civ. Sez. 5, Sentenza n. 8369 del 05/04/2013).
La sentenza qui annotata, pertanto, risulta utile chiarificazione della stretta connessione, per non dire dipendenza, che si verifica tra l’ammissibilità delle dichiarazioni di terzi, da un lato, e la loro valutazione quali elementi meramente indiziari. E’ significativo infatti che la Corte provveda a cassare la sentenza impugnata anche in quanto si rende necessario un riesame del materiale probatorio non potendo attribuirsi valenza di prova piena a tali elementi, e al tempo stesso non avendo il secondo giudice correttamente valutato, nel caso concreto, gli elementi stessi per il loro contenuto indiziario che invece doveva essere oggetto di analisi e verifica da parte della Commissione Tributaria Regionale.
Tal verifica andrà in concreto compiuta attribuendo a questi dati (Cass. Civ. Sez. 5, Sentenza n. 20032 del 30/09/2011) la natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative; se da un lato non potrà ritenersi provato un fatto dedotto unitamente per mezzo delle loro risultanze, d’altro canto esse sono pienamente utilizzabili quali elementi di prova, unitamente ad altri elementi che orientino il convincimento del giudice nella medesima direzione (Cass. Civ. Sez. 5, Sentenza n. 9402 del 20/04/2007); infatti la Corte ha precisato, proprio con riferimento alla vis probatoria, come gli elementi indiziari in oggetto possano sì concorrere a formare il convincimento del giudice, ma solo se confortati da altri elementi di prova.
Sotto questo ulteriore profilo, nel caso in cui rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c., essi danno luogo a presunzioni semplici, ex artt. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 54 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
Conclusivamente, se l’orientamento qui ulteriormente confermato dalla pronuncia in commento da un lato ampia il materiale probatorio del quale – con adeguata prudenza, quanto alle dichiarazioni in parola – il giudice potrà tener conto ai fini della decisione, esso presenta un rischio connesso, sul quale dovrà riflettersi.
E’ infatti ben chiaro che tali produzioni potrebbero ridurre in concreto, e non migliorare, l’attendibilità del risultato finale; esse potrebbero consentire l’accesso al processo di fonti probatorie «non probanti».
Inoltre, il consentire identica facoltà accordata al contribuente ristabilisce solo formalmente tra le parti un soddisfacente equilibrio processuale; basti pensare alle dichiarazioni di terzo prodotte dalla Guardia di finanza, che magari le redige in quella fase invasiva se non costrittiva sicuramente caratterizzata da un certo metus in capo al terzo dichiarante che è l’accesso, l’ispezione o la verifica a carico del contribuente o di suoi clienti e fornitori. Inoltre, il mero fatto di provenire da un organo accertatore può ammantare tali dichiarazioni di un effetto suggestivo maggiore delle contrarie dichiarazioni prodotte dal contribuente: il giudice può esser indotto, anche solo psicologicamente, a pensare che le prime siano spontanee, mentre le seconde, in quanto formate successivamente, siano indotte da ragioni meramente difensive.
Necessariamente quindi la valutazione della rilevanza probatoria delle dichiarazioni dovrà, come ha qui precisato ancora una volta la Corte, esser valutata complessivamente, collegando e confrontando il contenuto delle stesse con gli ulteriori elementi indiziari versati in atti.
Cassazione civile, Sez. V, sentenza 5 luglio 2018, n. 17627
Art. 7 comma 4 d.Lgs. n. 546/1992